Questo materiale è redatto per fini di diffusione culturale, studio e ricerca, qualsiasi sfruttamento commerciale è vietato. E' consentito l'uso privato. per informazioni e comunicazioni SCRIVIMI !


Io mi ricordo quattro ragazzi con la chitarra
e un pianoforte sulla spalla…”
-pagina dedicata ai "quattro" del Folkstudio-

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La Discoteca di Stato (http://www.dds.it) sta catalogando il materiale riguardante il Folkstudio cedutole dall'Ass. Folkstudio 88(ha curato "il patrimonio" documentario lasciato da Giancarlo Cesaroni : dischi, locandine, documenti sonori ecc). Presso la Discoteca di Stato è possibile fruire di parte di questo materiale.Tra i documenti disponibili un'intervista di Cesaroni a Venditti e De Gregori.  Clicca qui per approfondire sull'Archivio Folkstudio presso la Discoteca di Stato.

"UNA NOTTE AL FOLKSTUDIO"

Il 22 Novembre 2009 presso l'Auditorium Parco della Musica di Roma si è svolta l'evento "Una notte al Folkstudio", clicca qui per tutti i dettagli!


Dal sito di Sergio Caputo:
  http://www.sergiocaputo.com/curiosita.htm
foto tratta da MUZAK, Settembre 1975 : il logo del folkstudio: due figure, una bianca e una nera che tengono una chitarra, come dire Giancarlo Cesaroni e Harold Bradley, i fondatori.

"Il Folkstudio era una cantina umida e puzzolente situata sotto un palazzo nel cuore di Trastevere (Roma). Le pareti erano insonorizzate con sacchi di iuta, c'era un piccolo bar con tre o quattro bottiglie, e la sala vera e propria era uno stanzone, in un angolo del quale c'era una pedana alta dieci centimetri, il palco. Da questa postazione precaria è partita gran parte della canzone d'autore italiana che oggi ascoltiamo. Sarebbe troppo lungo elencare i nomi, oggi illustri, che hanno iniziato proprio in quella topaia a far sentire la propria voce, ma si dice che perfino un non ancora famoso Robert Zimmerman (Bob Dylan), di passaggio a Roma, vi fece un'apparizione cui assistettero una trentina di persone. Il Folk Studio ha chiuso i battenti da molti anni.
tratto da : http://www.sergiocaputo.com/curiosita.htm
 

Nella foto nell'ordine : Giorgio Lo Cascio, Francesco De Gregori
Antonello Venditti, Ernesto Bassignano.
foto spedita da Simone di Milano


   

Nelle foto : Manifesti di spettacoli al Folkstudio con Francesco De Gregori e Antonello Venditti
(immagini tratte da Ciao 2001, 10-4-1977 n. 14 anno 9)












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da "L’Unità" del 3 aprile 2001 in occasione del cinquantesimo compleanno di F .De Gregori Ernesto Bassignano scrive...

“Francesco vorrei che tu, Antonello, Giorgio ed io fossimo colti per incantamento….”
di Ernesto Bassignano - foto tratte da "Folkstudio Story" di D.Salvatori, Studio Forma 1981
nella foto a sinistra Francesco De Gregori e Giorgio Lo Cascio.

Eravamo quattro amici al bar, certo ed era, figurarsi, l’autunno del ’68. Il bar si chiamava Bar delle Rose ed era assolutamente alla metà della salita del Gianicolo,  ad un metro esatto dalla porta del formidabile, unico, fatiscente quanto esplosivo primo Folkstudio: ma si, proprio quello fondato otto anni prima dai fratelli-coltelli Cesaroni e Bradley: un chimico bianco con la passione della musica e dei cavalli, e un pittore nero che faceva l’attore nei kolossal.
Eravamo quattro ma oggi, così come ha voluto il porco destino, siamo rimasti in tre.
Già perché il mese scorso se n’è andato il caro Giorgio, nonostante col suo male avesse ingaggiato una lotta strenua e coraggiosissima, che era sembrata per qualche tempo vittoriosa.
Antonello, Ernesto, Giorgio e Francesco, appunto: Venditti, Bassignano, Lo Cascio e De Gregori: quattro giovani neppur tanto scapigliati ma con coscienze adamantine, ognuno con una sua età, un suo vissuto e delle esperienze anche molto diverse, che qualcuno un giorno, in seguito e ciò nonostante, volle chiamare unificandole “scuola romana”.
Erano legati comunque, i quattro, dallo stesso amore per il folk, la canzone d’autore, la poesie e la politica. Giorgio era il figlio di Cohen, Francesco di Zimmerman (Dylan, ndr), Antonello di Elton ed Ernesto del povero Tenco, l’angelo senza spada caduto nelle grinfie delle città dei fiori, l’anno prima. Insieme cantavano gli spirituals perché all’epoca non si poteva fare altrimenti. Separati invece, le loro prime canzoni, piene di rabbia, vino, donne, funerali immaginari, aquiloni, soldati, treni e sogni di libertà.
Antonello era barbuto, sempre col montgomery, gli occhiali e la paranoia che gli si toccassero i capelli e il culo. Giorgio aveva sempre caldo e stava sempre in camicia, bianca e pulita. I capelli ricci, un testone alla Angela Davis e gote rosse. Francesco poca o nulla barba, un impermeabile largo del babbo con bavero alla “provaci Sam”, una pipa spenta, tante letture esulcerate e allegoriche, la voglia inesausta di imparare “il finger picking” dal fratello “hobo” Luigi. (Il fratello di De Gregori, Luigi, prenderà il nome di Luigi Grechi. Grechi è il cognome della madre, lo fece per non intralciare il fratello quando cominciò ad avere successo, ndr)
In più “tirava” la bocca come  il suo mito di Duluth (Bob Dylan è nato a Duluth, Minnesota - Usa , ndr), piaceva alle bimbe anche se era timido e lottava per non soggiacere mai alle imposizioni di quel fetente stalinista dell’Ernesto al quale, per via di cinque anni in più, il “boss” Casaroni aveva dato il compito di tenere tranquilla e composta la banda.
E allora ecco appunto l’ingrato compito, venuto il nostro momento di guadagnarci le tremila lire a sera, di andare a catturare i compagni schierati al bancone del bar o davanti al relativo flipper e riportarli di peso sulla pedanina rossa inmezzo alla puzza di fumo e il profumo di sangrilla, dribblando le poltroncine sparse e le pantegane d’autore e musicofilo-ideologizzate tra di esse ciondolanti. Ed ecco i primi compleanni comuni tra il “vecchio” Ernesto e il giovane Holden-Francesco visto che il galeotto 4 aprile, ebbene si, li aveva resi ulteriormente complici. Ed ecco le rassegne e i primi viaggi sul maggiolone di Antonello , ecco le trasferte importanti e le feste popolari sui palchi sgangherati del suburbio romano, spesso in compagnia di un’altra grande amica come Clara Sereni, magari per l’interessamento d’un Mario Schiano o d’un Leoncarlo Settimelli. Nel ’72 i quattro amici cominciarono a prendere strade separate. Prima Antonello con la sua “Roma capoccia”, poi Francesco con “Alice” decollano per diventare ciò che sono oggi, mentre Giorgio si ferma ai locali alternativi ed Ernesto si dà alla politica sul serio, prendendo a fare l’agit-prop con o senza chitarra per 30 e anche 40 mila chilometri l’anno, in treno o in auto, da Trapani al Trentino.
La serata che decreta definitivamente la fine della comune scapigliatura è quella del Teatro dei Satiri, nella quale, accanto ai due “Theorius campus” appare un nuovo soggetto pop molto meno d’autore ma di potenza espressiva inconsulta: un personaggio che quella sera Ernesto sulle prime non apprezzò per le sue tematiche ma che presto dovette imparare a seguire per la sua indiscussa capacità melodica e pianistica: il piccolo urlatore si chiamava Riccardo Cocciante.
Ciao Giorgio, Ciao Giancarlo ! (Cesaroni è scomparso nel '99, ndr), auguri Francesco ed Ernesto!
E trent’anni dopo cos’è rimasto di quelle tremila lire a sera per tre canzoni, di quel fumo, quelle sagome iperreali accatastate sulla porta di Via Garibaldi? Andateci, una sera a Trastevere a cercarne le tracce! Le insegne sono diverse, ma come direbbe Stefano Rosso, Via Garibaldi è sempre là e i colori della nostalgia non sono cambiati.
Essi lottano ancora dentro ed insieme a noi, senza vergogna!

ERNESTO BASSIGNANO

Ernesto Bassignano scrive canzoni fin dagli anni 70. Prima, ballate per le azioni del teatro di strada, poi pezzi suonati con De Gregori , Venditti e Locascio al Folkstudio, e ancora canzoni di protesta manifesti della lotta operaia, suonate nelle Feste dell' Unità di tutta Italia ; infine le composizioni contenute nei suoi dischi. Il suo ultimo disco, "La luna e i Falò", è del 1989.

<>Nato a Roma il 4 aprile 1946, vive per lunghi anni a Cuneo. Rientrato nella capitale, studia scenografia all’Accademia di Belle Arti. Fa teatro di strada con Gian Maria Volonté e frequenta il Folk Studio, dove stringe amicizia con De Gregori, Locascio e Venditti. Diviene organizzatore di rassegne sulla nuova canzone. Fino alla chiusura del giornale, è critico musicale di "Paese Sera" e collabora a programmi radiofonici. Musicalmente esordisce nel 1973 con l’album Ma, inciso per la Ariston. Le tematiche di base del primo disco sono strettamente politiche. La musicalità è folk, tipica delle composizioni politicizzate dell’epoca. Trascorrono due anni durante i quali l’autore affina le sue capacità espressive. Incide Moby Dick (RCA) nel 1975. Se le composizioni, dal punto di vista musicale, ricalcano lo stile di Luigi Tenco, i testi sono ancora sensibili alle tematiche sociali e solo in apparenza sono meno impegnati. Fra i brani contenuti: A Victor, dedicata a Victor Jara, musicista cileno e Moby Dick, un attacco contro la Democrazia Cristiana. Nel 1976 la RCA pubblica un album antologico, registrato dal vivo, intitolato Domenica musica a cui prendono parte gli amici: Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Lucio Dalla, Paolo Conte, Rino Gaetano, Renzo Zenobi ed altri ancora; quindi nel 1978 il 45 giri Cenerentola col quale chiude la prima parte della sua carriera artistica musicale. Nei cinque anni successivi abbandona la musica per dedicarsi ad attività giornalistiche e radiofoniche. Nel 1983 si riaffaccia nel mondo della musica con l'album D’Essai. Il nuovo disco è dedicato ad Amilcare Rambaldi, il presidente del Club Tenco. Tutto l’album si ispira al cinema, per parlare di un’epoca irrimediabilmente finita. I titoli servono all’autore a volte come spunto per un omaggio sincero, a volte per fermare attimi fuggevoli o per flash istantanei su avvenimenti che lo colpiscono, ma solo poche volte c’è un reale nesso tra i film e le parole delle canzoni. Nel 1985 compare l'LP Bassingher, soprannome affettuoso che gli amici hanno attribuito all’autore. Nel 1989, rifacendosi allo stile del Cantacronache, il cantautore compone Mi chiamo Gian Maria, sigla della rubrica televisiva "Diogene" di Antonio Lubrano. Sempre nel 1989 un nuovo LP, La luna e i falò, acclamato dalla critica. L’album è un viaggio alla scoperta di se stesso, un’indagine malinconica sui sentimenti. Vi sono, nei brani, frequenti allusioni al trascorrere del tempo e gozzaniani ricordi del passato, uno dei brani, Il puntino  è dedicato a se stesso, una sorta di autoipnosi per sopravvivere.
<>Oggi Ernesto fa il giornalista free lance, per testate e anche per programmi radiofonici. Sarebbe però ora che qualcuno si prendesse la briga di riportare il suo lavoro all'attenzione del pubblico.

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"LACANZONE ROMANA E IL FOLKSTUDIO"
 di Stefano "Solegemello" CLICCA QUI!

SPECIALE FOLKSTUDIO a cura di RIMMELCLUB, sito non ufficiale F.De Gregori

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nella foto Mario Fales e Gianni Togni al Folkstudio
(tratta da Muzak, Settembre 1975)
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Estratti del libro "Canzoni pennelli bandiere supplì", dI Ernesto Bassignano; numerose le citazioni sul Folksudio e su
"I Giovani del Folk": Bassignano, De Gregori, Lo Cascio, Venditti.


(...) "De Gregori con trench e pipa che lo ha seguito tra i baraccati dell’Esquilino, Tinin lo ha appena conosciuto, sempre in Trastevere.
II jazzista Francesco Forti, amico di Grieco e sincero estimatore del suo repertorio, dopo aver sentito Tinin cantare le sue ballate buffe, lo ha convinto a presentarsi al Folkstudio dal boss Cesaroni:"Basta con i latrati di questo cane d'un Battisti e tutti gli altri popparoli, sanremesi o meno! Tu e tutti gli altri cantautori che sanno cantare e scrivere di cose vere — gli dice — avete il dovere di farvi avanti. Cabaret, canzone politica o d'autore, va tutto bene ma, mi raccomando: basta, anche voi, con la facile demagogia e il populismo spinto da sloganistica canora.Bisogna inventare una nuova canzone civile, perdiana, sennò,da un lato esisterà sempre Sanremo e dall'altro i rivoluzionari che cantano roba per la piazza, solo per se stessi e chi è già d'accordo!" <>E' così che, solidale con Forti e convinto si debba sul serio cambiare musica, arriva, non più da spettatore, in Via Garibaldi.
Ed è così che il boss lo ascolta, lo trova ok e lo presenta immantinente agli altri due cantautori giovani, tali Antonello e Francesco, che da pochissimo tempo hanno preso a frequentare con successo quella lunga salita per il Gianicolo, lastricata di porfido.
Rosa, rosso, arancio, nocciola, quattro macchie di verde per quattro piantine.
Via Garibaldi, pochi alberi e tanti sampietrini, due bar e un ristorante per i signori. Via Garibaldi dove, quasi in cima alla salita, prima della caserma dei caramba, Giancarlo Cesaroni ha posto la sua tana dove una sera era passato pure, perché mito non fosse solo una parola, un certo Dylan, eroe del Folk City al Greenwich Village.
E a proposito di Village, anche lo stesso papà di Dylan, Dave Van Ronk sarebbe poi venuto e ritornato, anno dopo anno, a trovare gli amici del Folk di Roma, a dar lezioni di chitarrismo blues and rag forte e scarno, a cantare il country-blues d'autore, certo, ma anche Weill e persino una sua versione dell'Internazionale, per salutare a pugno chiuso!
Via Garibaldi è lunga e ancora deserta nel sessantanove, tant'è vero che si può arrivare al Folkstudio ogni sera parcheggiandoci davanti. Un cappuccio, un vino, una birra e un cicchetto al Bar delle Rose a fianco e via, dentro il budellaccio muffito dove ogni tanto, in una nuvola di fumo che pare nebbia in Val Padana, qualche sorcio fa il solletico ai piedi d'un qualche spettatore che zompa per aria.
Sta insomma nascendo una bella amicizia e in pochi mesi i tre cantautorelli, cui s'è aggiunto un amico chitarrista di Francesco, Giorgio Lo Cascio, comincia a scaldare la storica pedanina rossa e ad avere ogni domenica qualche decina di fans in più.
II mondo del Folk, tra fumo, sangrilla, polvere, muffa e vecchie sagome di plastica abbandonate colà da chissà quale artista iperreale misconosciuto, diventa il loro mondo e la loro casa.
Tutte le sere alle ventuno, non solo più le domeniche pomeriggio, tutti presenti! Ci sia da cantare, da ascoltare o solo da conoscere, perchè ogni sera, oltre ai soliti noti tra jazz, folk e canzone di lotta, possono arrivare artisti stranieri e nuove scoperte di Cesaroni, che pare aver contatti in mezzo mondo.
Tre canzoni per uno all'inizio, in repertorio, e, poi, una nuova a settimana, se non al giorno: i tre sono diventati autori indefessi e prolifici, pronti a presentare, a proporre al giudizio del loro pubblico di cento esperti, le loro nuove composizioni, precedute da una sigla che, in definitiva, si presenta ormai come un vero manifesto.:
"Sto pensando da molti anni a una canzone che sia di tutti. e, non soltanto mia, che non canti per cantare, solo per dimenticare..."
Antonello Venditti è buono, generoso, spaccone proprio come il "Cicalone" che resterà sempre. Già allora è mezzo comunista ateo e mezzo cattolico credente, perché lui, Antonello, è in pratica il compromesso storico fatto uomo.
Lo chiamano Mifune perché sembra davvero il celebre Toshiro dei "Sette Samurai".Arriva dopo aver parcheggiato il suo Maggiolone nero e subito attacca con la sua nuova barzelletta fresca di giornata: è inesauribile. Sempre col montgomery, anch'esso nero, con una barba ben curata e dei capelli che sono la sua pena. Basta toccarglieli perché si terrorizzi:
"Nooo che mi cascano, lasciatemeli stare, maledizione!"
La prima volta che Tinin lo vede è una domenica pomeriggio d'ottobre e sta "zappando" sui tasti in Sol con le caratteristiche dita medie sollevate, (spesso i tasti li fa saltare in aria).
Canta, accompagnato dal suo amico Sandro alla chitarra, l'esulcerata e pittorico decadente Tramonto rosa (con nuvole di grigio).
Giorgio Lo Cascio, invece, è timidissimo e quando inizia a cantare le sue ballate coheniane diventa tutto rosso sotto i riccioli. Non ha mai freddo e anche in pieno inverno, in quel buco che non si scalda mai se non con il fumo delle sigarette e il fiato di sangrilla di cento persone, sta sempre in camicia, una delle sue preziose camice da cantautore.
Francesco, glabro, magro, snob, introverso e principesco come da oleografia, sembra ancora più magro, infagottato com'è in giacche ed impermeabili del babbo bibliotecario. Figurarsi se non fuma la pipa, se non arriva con il collo del trench erto da sembrare Bogart:, se non si fa desiderare sul palco, se non si spara ore di flipper nel Bar delle Rose lì a fianco, scolandosi birre disperate.
Spesso tocca proprio al presentatore Tinin - che al Folk tutti già chiamano il "Bassigna" ed è il più anziano e "preciso" – andarlo a pescare al banco o al flipper del bar perché, nonostante sappia benissimo che è il suo turno, gli piace troppo farsi aspettare e farlo incazzare.
Dopo gli apripista della canzone d'autore alla romana, Edoardo e Stelo con la loro romanissima e storica Lella, "La fija de' Projetti er cravattaro"
Sono dunque arrivati loro, più politicizzati e incazzosetti, ad intrattenere i coetanei con le loro storie surreali, cattive, tragicomiche. "Canzoni d'odio e d'amore" insomma, come le chiama il Francesco.
Le canzoni, le loro canzoni, le loro due o tre canzoni a sera, uno dopo l'altro, seduti sul seggiolone, anch'esso di color vermiglio, come la pedana, lui e Giorgio, Francesco molto spesso in piedi, Antonello al pianoforte e la timidissima corista Diana Corsini a dar man forte, quelle volte che c'è.
Civita, A Gombrovicz, Sto pensando per Tinin, nel tentativo frettoloso di superare la strada, l'inno, la demagogia insita nel farsi capire gridando, nell'aver dovuto tentare d'essere popolare a tutti i costi, scrivendo le sigle itineranti del "Teatro di strada."
Al "Bassigna" tutti riconoscono esperienza umana, politica e civile, ma deprecano, ironizzandoci su mica poco, le sue logorroiche presentazioni per le quali, se un brano dura tre minuti, lui ne spende quattro per descriverlo e farci ricamini ideologici infiniti.
La casa del pazzo, The Partisan e Suzanne quelle di Giorgio, perché Cohen è il modello, quasi un'ossessione. Giorgio, il cantilenante, ipnotizza la sala e anche se stesso, al punto che ogni tanto bisogna svegliarlo dalla trance di quei cazzo di La minore e Mi 7 ripetuti all'eccesso sotto la voce scarna e quasi recitante.
Rosso corallo, Al mio funerale, Nina e Signor aquilone per Francesco, che tentava di italianizzare il suo country dylaniato con ritmi più tranquilli, melodie nostrane, temi personali tra i quali la morte, il vino e l'amicizia prevalevano. Francesco gambe unite, piedi in dentro, mette la cicca accesa tra le chiavi della chitarra - tutti a imparare perché fa molto fico -, "tira" la bocca e la voce proprio come il suo idolo di Duluth, del quale ha già tradotto molto, usa metafore coltissime, al limite dell'astruso per alcuni, favolose citazioni per altri.
Lontana è Milano, A Gesù Cristo e Sara Rosa per Toshiro-Antonello che, in più, aggiunge, spesso a richiesta, perché si cantava insieme e faceva cantare tutto il pubblico, la sua versione rock-ironico-pacifista della militare Ta-pum.Antonello è ancora più cattivo e provocatorio di Fo, di De André e della Marini nei confronti della Chiesa cattolica, del Vaticano, d'un dio che desidera e a cui vuol rivolgersi, a patto che sia di nuovo e per sempre un dio degli uomini e non della liturgia. Quando attacca le prime strofe di a Gesù Cristo, il pubblico del Folk si divide violentemente: "Ammazzete Gesù Crì quanto se' fico, chissà che me credevo che stavi a fa'/ volevo un po' vede', io so' ignorante, per' monno ch'hai creato, che stavi a combina'..."
Naturalistico e "genovese" Tinin, ipnotico e ossessivo Giorgio, dolcissimo, simbolista e affabulante Francesco, potente, acuto, incazzoso un Antonello ancora in lingua romanesca, se non proprio verace, quanto meno appena rivisitata da studente del primo anno di legge.
Insomma, e un'oretta d'autore mica male, spesso presentata e animata da papà Archie Savage, uno dei componenti della formazione "Folkstudio Singer", nume tutelare dopo l'abbandono di Arold Bradley, negrone di ottanta chili che balla e canta da dio, ha una risata di tuono e se ti da una pacca ti sderena.
Un'oretta che termina, immancabilmente, con la sigla ninna nanna Irene Goodnight, ripetuta due o tre volte per far capire che è assolutamente ora di chiudere, di andare a dormire.
E se qualche impenitente ingordo, innamorata o rompicoglioni proprio non capisce, allora è il boss stesso che zompa in pedana e fa segni con le braccia degni d'un marine sulla tolda dell'Enterprise mentre i quattro cantautori, assonnati e imperterriti, ad libitum continuano con la litania:
"Irene goodnight, Irene goodnight, goodnight Irene goodnight Irene, y see you in my dreams ".
Ma quale Scuola Romana... Tinin, Francesco e Antonello si sono ritrovati per puro caso insieme a scrivere e cantare canzoni in uno stesso luogo e nello stesso momento, a fruire del gran lavoro popolare, dei modi, dei temi di quei campioni contadini e borghesi di città che avevano, nei dieci anni precedenti, tramandato con tigna e raccolto con amore, dialetti e relativi canti regionali; molto spesso, dalle radici comuni, dalla Val d'Aosta al profondo Sud.
E allora è stato bello pensare, rifarsi ai vari Dylan, Tenco, Brel e Ferré, ma è stato altrettanto interessante ascoltare le ballate toscane, da Leoncarlo Settimelli e Caterina Bueno: barba, pochi capelli, un po' di pancia e grande simpatia per l'intellettuale e giornalista Leoncarlo; bellezza, straordinaria comunicativa, vino rosso e passione per Caterina, la stessa cui De Gregori, più di dieci anni dopo, dedica una significativa canzone d'affetto e stima, lei, la toscanaccia dalla voce rauca che, per  un'estate intera, divide a metà col suo chitarrista, da vera rivoluzionaria.
E le ballate autobiografiche pugliesi dell'ex morto di fame Matteo Salvatore che ora, sopravvissuto alla miseria del Tavoliere, è osannato dalla borghesia democratica romana e sbanda paurosamente, tradendo gli assunti rabbiosi per qualche invito in Rai o qualche decina di biglietti da mille? Matteo, o lo ami o lo odi, non c'è scampo. Se riconosci nella sua faccia, la sua voce e la sua chitarra le storie lacrimevoli che racconta e non pensi ai suoi modi paraculi di vendersele: beh, tutto bene.Ma se analizzi il suo essere diventato, in pochi anni di permanenza a Roma, il cocco dei "bene" progressisti e lo stolido pittore di acquerelli naif compiaciutissimi, la sua fame di riscatto senza dignità...
E Otello Profazio, divo folk calabrese, che ormai è un'istituzione con le sue storie antiche e terribili, che spaccia per tradizionali, mentre sono regolarmente depositate alla Siae a sua firma?C'è, poi, la potente, incredibile e incazzatissima super proletaria sicula Rosa Balistreri che - se in piazza non trova microfoni - canta a voce nuda e si fa sentire comunque da migliaia di persone: l'importante è non perdere l'ingaggio, oltre che trasmettere la poetica del suo amico e complice Buttitta da Bagheria e altre ennesime storie di sfruttamento e di mafia. Rosa, come Matteo, ha campato per anni a pane olio e sale, mica no.Ora, con l'ausilio d'una chitarraccia, d'una rabbia infinita e d'una voce che è un ringhio, fa il folk di lotta, quello, magari, un tanto al chilo e due accordi, ma di grande e immediata presa politica e umana.
I più spassosi? Merli e Chittò, come dire il Duo di Piadena, anch'essi protesi nello sfruttamento del momento e del filone " Uva Fogarina" finché dura.
II cotè cittadino del folk politico è invece rappresentato, in Via Garibaldi, particolarmente da Ivan, Giovanna e Paolo, come dire Della Mea, la caposcuola Marini e Pietrangeli. Ebbene, Ivan è stonato, con la "zeppola", non è un gran musicista ma le sue ballate, spesso in dialetto milanese, sono ossessive e trapananti, fantastiche e metaforiche, riuscendo a volte a sfiorare la grande poesia epica. Paolo, già prima di Contessa, era il più moderno, caustico, coraggioso interprete delle battaglie di fabbrica, di piazza e di strada, riuscendo a raccontare - per sommi ma fondamentali capi - parole d'ordine, slogans, bisogni, invettive e aneddoti nei tre minuti d'una fulminante canzone.
Giovanna? Beh Giovanna non si discute e non si discuterà: è e sarà il capo, la responsabile, la grande madre d'un movimento nato alla fine degli anni cinquanta e spentosi nella metà dei settanta, quando Pippo Baudo portò il folk a Canzonissima. Allieva della mondina Giovanna Daffini, ha saputo coniugare i canti del lavoro con gli insegnamenti chitarristici di Segovia, la musica contemporanea con Brecht. La sua faccia senza età, la sua fierezza, la sua voce mutuata dai campi, la sua maniera di raccontare tra una canzone e l'altra la realtà, traducendola in immagini degne di Fo, non abbandoneranno mai la mente di Tinin e di tutti gli altri buoni e generosi figli e allievi del Folkstudio.
Ospiti fissi? C'è "Superguitar" Kuipers, a dar di penna spasmodica e blues, inventando nuovi ritmi, deliziando tutti con la sua risata folle e la lingua un po' olandese, un po' inglese e un po' italiana che racconta storie fantastiche tra birra, cani, piattole parlanti, medicin-show e isole incantate.C'è Luigi "Ludvig" De Gregori, fratellone di Francesco, innamorato perso di Guthrie e Seeger, appena tornato dal suo ennesimo viaggio in Irlanda, alle radici del country e sempre in guerra con l'accordatura della sua chitarra: "Scusate ma stasera ho bevuto troppo poco e i folletti Poltergheist si sono incazzati con me..."
Cesaroni ha preso ad odiarlo, il Luigi, perché dice porti sfiga: il fatto è che il boss ama i cavalli e le corse, è un grande scommettitore. Luigi pare abbia pronosticato qualcosa di male al cavallo del boss e il povero animale si è azzoppato davvero. Da quel giorno, per mesi, il boss s'apposta sulla porta e, come Achab, scruta nella notte per avvistare la balena, la maledetta balena Luigi del malaugurio.
Fra Giovanna e gli altri dei vari canzonieri politici e Matteo, Otello, Maria, Caterina, Rosa, Tonino, il Duo di Piadena e gli altri folksinger puri - molti di loro Tinin li ha visti ed ammirati sul palco del Centrale, due anni prima, nello spettacolo di Fo -, è nata la sponda d'autore e civile: se De Gregori è un figlio di Dylan e Antonello di EItonJohn, Tinin lo è dei francesi tutti e di Tenco in particolare. C'è insomma di che mettere le basi per una nuova buona canzone italiana, confrontandola con quella già nata a Milano e Bologna , dei vari Gaber, dei Guccini, degli Endrigo e degli amatissimi genovesi.
Tre sacchi a sera a fine cantata e sono pizza e sigarette per tutta la settimana. Sono nuovi amici, ragazze carine e disponibili, che si bevono i racconti delle loro chitarre e del pianoforte, come estasiate. E spesso li amano.
Serena per esempio: una minuta, carinissima moretta sempre in prima fila stravaccata di sghembo sulla poltrona rossa: Serena bella e impossibile. Punta neanche troppo di nascosto Francesco, bello e più impossibile ancora, che spesso ama appunto farsi puntare e basta e si accompagna a una certa Nicole, una pittrice un po' eccentrica che gli fa da nave scuola.
Ma Serena piace molto anche a Tinin, che diamine. E allora, certamente senza sentirsi per questo menomato nell' orgoglio, lui pressa sempre maggiormente l'esulcerata fan degregoriana finchè essa, forse proprio per ripicca verso il suo principe schizzinoso, accetta la sua corte e si accontenta, per così dire, d'un altro lungagnone molto più disponibile.
Sì, davvero una pacchia. Poca gelosia, molta solidarietà e crescente adesione politica. Giusto qualche scazzo isolato perché lui è un po' più vecchio e più stalinista rispetto ai suoi pards un tantinello indisciplinati e anarcoidi, indubbiamente poco soggetti alla disciplina e alle gerarchie da sezione.
Un pezzo per uno, ma molte volte anche in coro, oramai la fama dei giovani poetastri s'è allargata e li vengono a sentire anche i Loi, i Pontecorvo, i Grieco, le Mazzetti, le Ottolenghi, oltre a molti esperti e giornalisti che cominciano ad esercitare le loro penne sulla "Nuova Canzone" del Folkstudio.
E a proposito di giornalisti, succede che Davide Grieco, il giovane figlio di Bruno, debba andare una sera a sentirli per conto dell' Unità. Succede anche che si senta poco bene e dia buca ai tre che ormai già gustavano il frizzo del primo articolo importante. Ma niente paura: Tinin, il mattino dopo, chiama Davide al telefono e gli "passa" il pezzo, raccontandogli per filo e per segno canzoni, pubblico, reazioni in sala.
Due giorni, dopo sulla pagina romana, esce finalmente l'oggetto del desiderio e Tinin corre al Folk per gioire insieme agli amici e per ottenere merito ed encomio per un'operazione accorta.
De Gregori è invece su tutte le furie; non lo saluta e quasi gli mette le mani addosso: che diavolo è successo, ora? Che il povero amico critico musicale, un po' rincoglionito per esser stato svegliato di mattino presto, un po' ingarbugliato tra letto, taccuino e linea telefonica disturbata, ha sbagliato a trascrivere un titolo - forse il più importante per Francesco - e Signor aquilone è diventato... La signora Piloni! Sempre più gente, insomma, comincia a conoscere, analizzandole, quelle ballate che loro forse non avrebbero mai pensato un giorno di incidere. Hanno l'onore di apparire in tivvù in un programma etnomusicologico di Berio e della Ottolenghi che, accostandoli in una puntata nientemeno che a Dylan, fa parlare lo studioso Alan Lomax della canzone popolare nel mondo.
Fanno poi un'altra conoscenza Rai e sono ospiti alla radio, di Giaccio e Cascone, per una puntata dal vivo del programma "Per voi giovani". Ecco le prime trasferte con i Folkstudio Singers, Mario Schiano, Giovanna Marinuzzi, le due bionde sorelle di Lou Castel delle quali una canta e l'altra fa l'attrice, Giovanni Crisostomo e tutti gli altri protagonisti di quei giorni. Notevoli le esperienze a Foggia, a Napoli e alla reggia di Caserta. <>Per Napoli partono in quattro con chitarre fra i denti, sotto le ascelle e su per il naso, sul Maggiolone di Antonello.
Salgono al Vomero per esibirsi al Teatro Instabile che ha come organizzatore culturale l'amico Michelangelo Romano, futuro produttore di Sorrenti e Vecchioni: e un posto molto "in", frequentato da turbe di rivoluzionari da salotto con la erre moscia come quella che faceva Totò nei suoi ruoli da nobile. Una serata al fulmicotone perché il pianoforte per Antonello non c'è e lui, buono sì ma incazzato come Hitler, deve accettare d'essere accompagnato dai tre pards con le loro tre chitarrelle, standosene in piedi di fronte al pubblico e soffrendo come Linus senza la coperta.
Accordi sbagliati, polemiche, quasi lite e, sotto di loro, un pubblico che rumoreggia maleducatamente.
"Ma questi qua non cantano canzoni di lotta, queste sono le solite canzonette bovghesi, pev di più piene di metafove e pavoloni... ma cantateci Contessa, pev favove, fate i bvavi..."
Finisce malissimo, tranne che per Tinin che, nonostante la rissa ideologica, almeno viene rimorchiato per la notte dalla più animosa, matura e piacente delle nobildonne compagne.
Ha così la fortuna di conoscere dall'interno, per una notte eduardiana, un mondo partenopeo che sino ad allora aveva visto solo al cinema: un mondo fatto di odori di muffa, parati scollati, servitù complice, nonne centenarie con la papalina, da scavalcare dormienti per andare al cesso di notte, e cornetti caldi e latte nei bricchi d'argento massicci la mattina "presto", alle undici!

Prefazione di Antonello Venditti  al libro "Canzoni pennelli bandiere supplì" di Ernesto Bassignano 

...LE COSE DELLA VITA FANNO PIANGERE I POETI/ MA SE NON LE FERMI SUBITO, DIVENTANO SEGRETI... Lo so, iniziare citandosi, mentre ci si prepara per una dedica a un amico, può apparire assurdo.
E invece so quel che faccio e che scrivo.
Le parole di una mia vecchia canzone penso siano infatti l'esordio migliore - essendo tra I'altro tale canzone la piu amata da Ernesto -, in perfetta sintonia con il senso di questo libro.
Un libro che mi ha emozionato subito, dalle prime righe, che ho bruciato in una notte, probabilmente con la stessa dose di ansia e la stessa impazienza con la quale I'autore l'ha scritto.
E chi l'avrebbe mai detto! Un libro che, quasi trent'anni dopo dai giorni della nostra conoscenza, mi fa scoprire tutto intero e a tutto tondo l'amico, che mi svela un ampio tratto della sua vita, interessanti fatti e misfatti dei quali mai avevo saputo nulla. E in particolare non soltanto episodi e aneddoti sballottati tra Cuneo e Roma, ma vari aspetti intimi d'un carattere che - mi accorgo oggi con piacere - neppure sospettavo, camuffato sotto la scorza di burbero e di militante severo che doveva servire ad impressionarci.
Ecco allora perché iniziare citando la mia confessione sulle Cose della vita (che tra I'altro risale proprio ai bei tempi eroici del Folkstudio che ci videro tanto uniti): perché oggi altre ma simili cose Ernesto ha saputo e voluto a sua volta chiudere, fermare in un cristallo di tempo, in uno scrigno di memoria e colorare, prima che esse rischiassero di svanire per sempre, stingere, amalgamarsi, omologarsi a questi nostri attuali tempi grigi, veloci, violenti.

E invece i tempi in cui Il Comunista, Il Piemontese, Il Duro Ernesto (come lo chiamavamo) piombò con la sua fisicità e i suoi comizi dentro quella cantina di Via Garibaldi, scioccando letteralmente me e De Gregori, erano tempi lenti e con poche auto, erano passeggiate da farsi placidamente a piedi, avventure da mordere a fondo - notti comprese - fra bar, cantine, ristoranti, librerie, gallerie e iniziative... luoghi umani ed artistici legati strettamente dallo stesso spirito neo-romantico. Erano tempi - sana nostalgia per la giovinezza a parte - in cui Roma Capoccia dominava sul mondo infame dall'alto della sua rivoluzione culturale e il Folkstudio in Via Garibaldi (con annesso il limitrofo Bar delle Rose) era un microcosmo capace di far convivere guitti intellettuali e popolo, hyppies globetrotters e politici, ceti razze ed età, tutte unificate dal jazz, dal folk, dalla sangrilla e dall'amicizia grande, fatta di grande complicità. Erano tempi e luoghi che nel libro di Ernesto - tra canzoni pennelli e bandiere sessantottarde - riaffiorano con la loro verità e il loro colore reale, come ridipinti e lucidati, vendicando centinaia di scarni e frettolosi pezzulli di pavide penneasfera per forzate ricorrenze sui loro rotocalchi coi culi in copertina! Il Piemontese, borghese come noi ma già svezzato a racconti di guerra, montagne innevate e campagne, vita contadina, spinto della Resistenza, con quei quattro o cinque anni di più e quella stazza fisica ed ideologica superiore alla nostra gracilità di metropolitani, di studentelli, spalancò la porticina del Folk e subito pronunciò parole importanti, per noi spesso anche oscure. Teorizzò, come un tribuno, di antifascismo, di strade, fabbriche, masse, organicità, imponendoci crudelmente di "volare più basso, di lasciare qualche sogno in terra, di buttarci nella mischia quotidiana..." Ci inquietò e ci impose rispetto, trascinandoci in piazza con lui, facendo fino in fondo il suo dovere di militante e fottendosi mica male laddove, mentre noi riuscimmo a far la nosta parte restando nondimeno liberi, lui invece - uomo di marmo assoluto - fu ineluttabilmente irreggimentato e usato al punto da tarpare per lustri a venire la fantasia e le qualità liriche di cui era abbondantemente in possesso. Ora questo libro coloratissimo e musicale viene a liberarlo definitivamente, certo, quasi trent'anni dopo.

E' come se Ernesto - urlando e ricordando, senza mai prender fiato, i suoi anni migliori e fondamentali, non tanto di successo quanto di formazione, fosse riuscito finalmente a sciogliersi dai vincoli anacronistici e tornare libero e bello, giustamente ancora e sempre incazzato come una bestia, lucido come dopo una severa autoanalisi che - raschiando il fondo di ogni recriminazione e ripensando gli avvenimenti - lo rimette in gioco.
Un gioco che oggi ha di nuovo un gran bisogno di gente come lui, emendata dalla demagogia, sincera, recuperata al sogno degli amici di Sora Rosa e di Alice, di nuovo e ancora pronti a lottare contro il nuovo, ma non ultimo, "mondo di ladri".
Sì, mi sa che a Ernesto questa mia vecchia canzone va proprio su misura, guardaunpò, dalla prima parola all'ultima e non a caso lui l'ha sempre amata tanto...
Va bene. E allora anch'io come sempre ...
"...Continuerò a cantare le cose della vita/e se ho sbagliato a viverle, per me non è finita..."

da “La valigia del cantante” di Pino Casamassima – De Ferrari Editore

(...) "Ho conosciuto Francesco nel ’69 e poco dopo abbiamo messo in piedi un gruppo: ci chiamvamo senza troppa fantasia, “I giovani del Folkstudio”, c’era anche Giorgio Lo Cascio. Suonavamo solo la domenica, iniziavamo al pomeriggio e tiravamo avanti fino a notte. Io avevo già qualche canzone mia, mentre Francesco cantava Dylan, Cohen e De Andrè. La nostra sigla d’apertura era “Tapum Tapum” e chiudevamo con “I will good night”. Il folkstudio era un posto incredibile. All’epoca si trovava in Via Garibaldi, poi si spostò nella libreria “L’uscita”, quindi in via Sacchi, infine vicino al Colosseo, ma era già tutt’altra cosa rispetto al locale di Trastevere: con la scomparsa di Cesaroni era finito tutto."(...)


dal libro Folkstudio story (Dario Salvatori) 
di Antonello Venditti

Bassignano :"Attenti, volano schiaffi!"
De Gregori: "Non fare il solito stalinista".
Lo Cascio (tifando De Gregori): "Non c'è motivo di scaldarsi tanto".
Venditti: "Fulmini, tuoni, denunce, condanne, scarcerazioni! Imparatevi gli accordi!
Cesaroni: "Mi avete rotto le palle".
That's Folkstudio.
Quando rimisi le mani su quel fottutissimo pianoforte pensai "Il Folkstudio è veramente morto, finito. Meno male".
A spiarmi c'erano cento occhi che quelli della barzelletta della civetta che fa il pappagallo sono uno scherzo, più quattro (Francesco e Ernesto) particolarmente carI. Poi due flashaioli da penna a sfera residuati bellici della dolce vita che ancora mi chiamavano Anita, otto preti in libera uscita travestiti e col tesserino da intellettuale, e lui, il Grande Vecchio Mammamia Che Paura, Cesaroni (che più lo guardo e più mi sembra lui, il Folkstudio).
La prima morale di questa favola è che solo lui, il "Buon Cesaroni quasi mai Giancarlo per gli amici, sembra aver navigato intatto tra gli anni, passando con estrema disinvoltura ed apparente soddisfazione dal sax di Mario Schiano alla ghironda dei Prinzi Raimund.
Quando rimisi le mani su quel fottutissimo pianoforte, dicevo, tutto sembrava finito, sepolto, passato e irripetiblle. "No pen-sava fra sè il pianista di passaggio - non è più il Folkstudio di via Garibaldi dove ci si divertiva ad annoiarci tra un ponce e l'altro dietro il banco della sora Maria, bar attiguo e comunicante, teatro ridotto di avventure etiliche e non, c'era un non so che, tutto parlava, suonava, cantava, no il Folkstudio non è questo, non mi commuovo neanche più. Oggi parlo, straparlo…allora...
In un angolo da osservare, spiare, il montgomery obbligatorio anche d'estate, ma siamo matti? Meglio una bella maglietta con le maniche corte e andare. Le tourneè erano trasferte al circolo Daunia di Foggia dove Cesaroni a momenti si ammazza (non diciamo come, eh boss?). Oggi palco da cento metri, mille fari, centomila watt, tre tir per tremila chilometri, se no come farei a cantare?
L'atmosfera, con la gente che continua ad entrare, si fa di festa tipo non si uccidono così anche i cavalli? E mentre sto per cominciare sento distintamente il bisbiglio di una quattordìcenne con maglietta "Patti Smith sei grande e bella", dice alla sua amichetta undicenne capelli a scacchi: "Hai visto chi c'è? C'è pure De Gregori, canta pure lui? Chissà se cantano insieme come ai tempi del Folkstudío?". Ma questo è il Folkstudio porca vacca! O no? Non c'è tempo, devo suonare, è un cammino all'indietro dove incontro Sora Rosa ...
Folkstudío è ancora il rivolo di sudore che parte dalla tempia sinistra e punge come una zanzara quando non hai messo l'autan, e gli occhiali che scivolano giù fino alla punta del naso, dove ricompare puntuale come un orologio un antico tic, ogni volta che sbaglio gli accordi, Folkstudio è anche silenzio profondo pieno di anni passati insieme, è chiudere gli occhi, è riaprirli e vedere ancora dei vecchi amici ...
"Attenti che qui volano schiaffi”, “Non fare lo stalinista", “Discutiamone con calma",  "Imparatevi gli accordi!", “Mi avete rotto le palle”.
I ragazzini new-wave se ne vanno perplessi. "Era lui o non era lui?", dato che alla fine De Gregori non ha suonato. La gente se ne va; restiamo noi: il Boss, Ernesto, Francesco, sua moglie ed io. La festa è finita.

 

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Giorgio Lo Cascio racconta… 

“Antonello fece la sua comparsa un pomeriggio con un montgomery tipo pecora che lo ha accompagnato per molti anni. Aveva in mano un pezzaccio di carta con il testo di una canzone(….): era “Sora Rosa”, e a noi piacque molto. Antonello suonava il piano in un modo che non avevo mai sentito e aveva una voce veramente eccezionale.
Ci fu tutto il tempo di imparare i suoi testi, perché aveva solo tre canzoni, più “Roma Capoccia”, di cui però si vergognava non ritenendola abbastanza impegnata e che quindi non cantava, e per molto tempo suonò soltanto quelle…”, così Giorgio Lo Cascio, in un volume dedicato ad Antonello Venditti dalle Edizioni Latoside, ricorda il loro incontro al Folkstudio di Roma, dove assieme a Ernesto Bassignano e Francesco De Gregori misero su uno spettacolo, “I giovani del folk”.

Dall' introduzione a "L'album di Antonello Venditti", Bmg-Rca,
raccolta dal 1972 al 1976 in due cd o tre Lp :

Nato a Roma l’8 Marzo 1949, Antonello è , anche artisticamente parlando, il figlio di una buona famiglia borghese e del ’68. La sua storia di cantautore comincia appunto al Folkstudio e prosegue negli uffici della IT, la casa discografica di Vincenzo Micocci (…) Per il lancio di Venditti egli tenta le strade tradizionali, e Antonello, alquanto spaesato, partecipa ad una selezione per giovani cantanti organizzata da Gianni Ravera in uno squallido cinema di Mestre. Venditti è tra i finalisti e si trova al Teatro del Casinò al Lido di Venezia a gareggiare per la Gondola d’Argento, più spaesato che mai.
Canta, pestando con furia i tasti del pianoforte “Ciao uomo”, bel pezzo tra il fantascientifico e il rivoluzionario che, con la sua cometa che viene dall’Est e l’invito a seguirla senza esitazione, fa sussultare in platea qualche signora impellicciata e qualche signore in smoking. Secondo il Lo Cascio il suo abbigliamento poco ortodosso non è completato dalle immancabili scarpe da tennis solo per l’intervento in extremis del discografico, che gli ha comprato ed imposto un paio di scarpe nuove. La sua canzone, ovviamente, non vince e la Gondola va ad una graziosa ragazzina sedicenne col vocione, che anni dopo diventerà Alice, il cui discografico barbuto come lui e che con lui ha diviso   la nervosa attesa del verdetto delle giurie sulle scale di fianco al palcoscenico, lo consola dicendo: “A Antonè, e che te ne frega, tanto sei bravo e la canzone è bella. Voi vede’ che sfonni lo stesso?”
Facile profezia. Ma anche se è “Ciao Uomo” a richiamare su di lui, come si suol dire, l’attenzione della critica e del pubblico più preparato, Venditti si afferma proprio con quella “Roma capoccia” che gli sembrava poco consona ad un cantautore impegnato, anzi “arrabbiato”, quale lo presentava il resto della sua produzione.
In questa produzione che dal 1973 al 1976 si arricchisce di ben cinque LP, una sorta di amore-odio per la sua città è tema ricorrente. Roma fornisce lo scenario, suggerisce temi, affiora nell’uso del dialetto, che non è gratuito, né una limitazione regionalistica, ma un modo per essere più a contatto con la realtà ed esprimerla meglio. Che canti della vita, della gente, dell’amore, di sé o della sua città, Antonello lo fa con uno stile robusto, sanguigno, aggressivo e provocante (in verità la parola che viene istintiva alla mente per definirlo è “incazzato”), ed allo stesso tempo quasi inevitabilmente colto, dato che, anche se contro di essa si ribella, la cultura borghese è parte integrante della sua formazione giovanile. In lui autore e cantante si completano e si fondono in modo essenziale, al punto che certe sue liriche avrebbero tutt’altro significato non tanto senza la musica, quanto senza l’interpretazione (si pensi ad esempio ai due semplici versi dai quali è costituita “Quando verrà Natale” e a cosa ne fa la ripetizione ossessiva ed il crescendo dell’esecuzione.)
Cantautore , dunque, all’ennesima potenza. Lo ispirano le cose della vita, e l’unità di misura della sua poetica e della realtà che in essa si rispecchia è l’uomo, nei cui confronti non ha né illusioni   né indulgenza, ma che osserva e racconta con accorata partecipazione, pagando anche di persona.
La condanna con la condizionale per vilipendio alla religione dello stato, inflittagli per quella sostanziale testimonianza di intima religiosità che è “A Cristo”, è inconsueta ed ulteriore prova di tale capacità di partecipazione, del costante impegno umano e sociale, della sincerità di accenti che, oltre ad una musicalità fresca e vigorosa, sono le costanti della sua produzione.(…)

ERNESTO BASSIGNANO...VISTO DA SERGIO CAPUTO

MA CHI E' ERNESTO BASSIGNANO ? 

Ernesto Bassignano è uno dei cantautori "storici" della musica italiana. Appartiene alla generazione dell'ormai lontano '68, e come altri suoi colleghi oggi più famosi cantava canzoni a sfondo civile. Negli anni settanta, al Folk Studio, c'erano tre personaggi emergenti che si esibivano abbastanza regolarmente: Venditti, De Gregori e Bassignano. Di questo terzetto giornalisti e pubblico di allora erano disposti a giurare che sarebbe stato proprio Bassignano a "sfondare". Sappiamo tutti, oggi, che le cose andarono diversamente. Perchè Bassignano non sfondò? Azzarderò un'analisi rigorosamente personale: Bassignano aveva un talento formidabile per farsi dei nemici. Bassignano era (dovrei dire è perchè è vivo e vegeto, ma spero che gli anni lo abbiano "ammorbidito") una delle persone più difficili con cui si potesse avere a che fare.
Antidivo, critico su tutto e su tutti al punto che perfino i suoi colleghi temevano la sua lingua tagliente, aveva un fiuto infallibile nell'identificare e denunciare il benchè minimo cedimento al "frivolo"... Insomma, un autentico rompiscatole.
Inoltre Ernesto aveva il vizietto di corteggiare (spesso con successo) le donne di amici e nemici senza distinzioni ne' riguardo, e questa è la cosa che più di tutte fece infuriare parecchia gente "importante".
Come se non bastasse, invece di raccogliere il successo che sicuramente riscuoteva e meritava, e frequentare salotti cultural-chic, nei quali era peraltro richiestissimo per le sue doti di caustico intrattenitore, saliva da solo sulla sua macchina scassata e andava a fare concerti sul cocuzzolo di una montagna per i contadini, o nelle fabbriche più remote, concerti dai quali il più delle volte tornava senza neanche il "politicamente corretto" rimborso spese.
Inutile dire che tutti questi suoi "difetti" furono proprio le cose che me lo fecero amare di più, ed Ernesto rimane (anche se ci sentiamo di rado) uno degli amici più cari che abbia mai avuto. Alcune delle sue canzoni mi fanno tutt'ora venire la pelle d'oca, in quanto autentiche poesie, nelle quali c'è sicuramente impegno civile, ma che non e' mai fatto cadere dall'alto, mai presentato sotto forma di "predica". Non c'è mai lo scadimento nello slogan o nel luogo comune, nella retorica , o nella "forzatura" politica.
Insomma lo spigoloso Bassignano, nelle sue canzoni, si trasforma in uno dei poeti più delicati e sensibili della musica italiana moderna, capace di lasciare nel cuore di chiunque lo ascolti una grande profonda serenità.
Oggi Ernesto fa il giornalista free lance, per testate e anche per programmi radiofonici. Sarebbe però ora che qualcuno si prendesse la briga di riportare il suo lavoro all'attenzione del pubblico. Io spero di aver contribuito in qualche modo con questa pagina che, probabilmente, lo farà infuriare. Ciao Ernesto!
 

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La Discoteca di Stato (http://www.dds.it) sta catalogando il materiale riguardante il Folkstudio cedutole dall'Ass. Folkstudio 88(ha curato "il patrimonio" documentario lasciato da Giancarlo Cesaroni : dischi, locandine, documenti sonori ecc). Presso la Discoteca di Stato è possibile fruire di parte di questo materiale.Tra i documenti disponibili un'intervista di Cesaroni a Venditti e De Gregori.  Clicca qui per approfondire sull'Archivio Folkstudio presso la Discoteca di Stato.


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